… E poi Arriva il Finale col Botto

THINKStamattina mi sono alzata pensando. Non a qualcosa in particolare. Semplicemente immersa in elucubrazioni sconclusionate. Sono partita dal fatto che nevicasse. Nonostante ci abbia messo dieci minuti a rendermene conto. La mia psiche si rifiuta. E gli occhi non vogliono vedere. Ma oggi si può fare. Oggi è Sabato. E il peggio del mondo automobilistico resta al caldo sotto al piumone. Così, tra coperte e lenzuola, spiagge caraibiche e inverni siberiani, la mia mente si è arenata su quella volta in cui a cinque anni ho scambiato un uomo per tuo padre e mi sono attaccata alla sua gamba, salvo poi vergognarmi immensamente dell’errore commesso. Non mi pare che quel giorno nevicasse. Ma sono comunque arrivata lì. E, per quanto sia passata una vita, mi sono trovata a provare ancora un leggero senso d’imbarazzo. Il che non ha molto senso, ma s’intona al contesto generale della mia sconclusionatezza mentale. Sono così svalvolata che Molly Bloom con la carta da parati e i cinesi non può che essere un’insulsa dilettante. Non l’avrei scritto così. Ma sono una signora. O almeno, ci provo. Anche se quando mi si rivolgono con quell’appellativo, mi vengono i brividi in fondo alla schiena e mi sento una vecchia signora bizzarra con entrambi i piedi nella fossa. Cerco di tornare in zona “presente”. Faccio sempre molta fatica in quest’operazione. E quando ci riesco mi dico ogni volta che pensare è come i jeans. Si abbina con tutto. O quasi. Non metterei i jeans con una camicia dello stesso tessuto. Mi sentirei troppo sputata fuori da un cartellone pubblicitario della Levi’s. Ma con tutto il resto ci stanno perfettamente. Allo stesso modo pensare è un passe par tout. Farlo si addice a tutto. O quasi. Sta da dio con la spesa, la doccia, l’attesa del treno, il viaggio di ritorno dal lavoro. Eppure talvolta sento di non poter pensare. Come se le mie elucubrazioni non riuscissero ad incastrarsi con le circostanze del momento. Di solito capita quando gli altri si intromettono proprio nel mezzo di una riflessione geniale. Roba da fare una strage. Durante le mie ultime ferie, ad esempio, sono rimasta ombelicalmente attaccata a Kid_A. Il che per una come me rappresenta già in sé una sofferenza immane. Intendiamoci, io amo Kid. O almeno credo. In effetti mi sono sempre chiesta quale fosse la differenza tra amare e provare affetto, ma sono arrivata alla conclusione che trattasi di disciplina incerta. Sarebbe meglio se l’amore fosse qualcosa di scientifico, se si calcolasse con un’unità di misura. Così potremmo pesarlo o misurarne la lunghezza e sapere se è davvero lui o solo un suo parente più o meno stretto. Comunque, ai miei fini attuali, non è poi così rilevante. Prendiamo per acquisito che ami Kid o che gli voglia bene. Resta il fatto che io i sentimenti li so coltivare solo a distanze alterne. Un’ora insieme e due ciascuno per i fatti propri. Perciò dovergli stare addosso 24-7 mi uccide. Mi toglie lo spazio, la luce, l’anima. Comunque ricordo in particolare un giorno in cui stavamo in macchina a caccia dell’ennesimo leone e io tentavo disperatamente di pensare a qualcosa. Qualcosa d’inutile, s’intende. Ma Kid continuava a parlarmi, interrompendo il mio pensiero. Appena taceva io provavo a ricominciare da capo. Ma invano, perché dopo un minuto lui riattaccava sottolineando come, a suo insindacabile giudizio, non fossi abbastanza attenta nello scannerizzare l’orizzonte. O cose del genere. L’avrei ucciso. Anche se non ricordo a che pensassi. Anche se qualunque cosa fosse credo di averla cancellata in non più di mezz’ora. Anche se era abbastanza vero che i leoni mi uscivano dagli occhi e no: non li stavo cercando. Mi avessero fatto ciao-ciao da dietro i cespugli non me ne sarebbe potuto importare di meno. Tutti hanno bisogno di una tregua. Persino dalle cose belle. E comunque è il principio che conta. Se io penso tu taci. Se io non penso tu puoi dire quello che vuoi per tutto il tempo che vuoi. Il che ovviamente non garantisce che ti stia ascoltando. Ma avrai ogni umano cenno di assenso e comprensione che ti aspetti da un interlocutore attento. O comunque più attento della Psicologa Mummia. Credo di aver già speso qualche parola altrove su di lei. Ma oggi mi sento indulgente. Voglio fare ammenda. Anche gli psicologi avranno un limite di sopportazione verso le tragedie altrui. Arriva un momento della giornata in cui o ti addormenti ad occhi aperti oppure hai la grinta no-stop della “betonega” del paese. Che poi questo termine non ho idea di come si traduca in italiano. Non so nemmeno se il concetto si possa rendere nella nostra lingua con la stessa efficacia. Direi di no. Eppure non mi viene in mente nessun’altra parola del genere. Di quelle che passano immutate anche alle generazioni che il dialetto non lo sanno parlare. Come la mia. O comunque come me, che se dico una frase in dialetto tutti si mettono a ridere, perché non sento le dieresi. Sulle quali in ogni caso mi chiedo: perché uno si deve complicare la vita stringendo, chiudendo e indurendo le vocali? Arrivata ad un punto di delirio evidente, ho pensato che fosse bene fermarmi a fumare una sigaretta. Lo so che il fumo fa male. Ma ti fa anche scoprire un sacco di cose. Io, ad esempio, ho scoperto che la neve sta scendendo alla grande. Tanti grassi grossi fiocchi gagliardi che ti fanno pensare a quei film natalizi dove, quando alla fine i buoni vincono, come per magia, si mette a nevicare. Dio, che cose patetiche. Che post patetico. Da non sapere dove buttarsi per trovare una conclusione vagamente dignitosa. Il che in generale è un problema di tutto quello che scrivo. Non so mai dove smettere, come smettere e quando smettere. Ci vorrebbe il finale col botto. O quello poetico. Qualcosa che lasci in bocca il dolce. O l’amaro. Qualcosa che impressioni, che colpisca. Beh, per quanto mi riguarda, credo di essere a corto di fuochi d’artificio. Per cui mi fermo qui. Nella speranza che la neve decida di seguire il mio esempio.

Come Fuggire dalle Questioni Natalizie

DSC00120

DSC00631

Forse dovrei scrivere qualcosa sul fatto che questo blog è stato abbandonato a sé stesso per un numero indecente di mesi. O magari dovrei esprimere la mia amarezza nel constatare che i post in mia assenza non si organizzano in modo autonomo scrivendosi da soli. Ho persino considerato il rientro classico. Quello in cui si buttano al vento i buoni propositi di essere più presenti e costanti. Ma ormai siamo a Febbraio. E tutte quelle fesserie da “anno nuovo, vita nuova” hanno superato la data di scadenza. In ogni caso non potrei mai essere meglio di così. Nemmeno se mi ci applicassi. Probabilmente ha ragione Kid_A il quale sostiene di aver pensato che con il tempo sarebbe riuscito ad educarmi, a rendermi un po’ meno selvaggia e un po’ più massaia. Mentre, a consuntivo, risulterebbe evidente ai suoi calcoli che non faccio altro che peggiorare. Lo adoro quando mi dice questo genere di cose. Dopo il Latitante mi ero ripromessa che non avrei più cambiato nemmeno una virgola di me stessa per un uomo. E pare che sia sulla buona strada…

Venendo al motivo del mio ritorno, o meglio, all’assenza di un motivo valido per tornare a scrivere, ho deciso di buttarmi su un evergreen. Il tema post natalizio che tutti noi, ai felici tempi delle scuole elementari, ci trovavamo puntualmente a scrivere in questo periodo dell’anno. All’epoca per me era un casino, perché ogni anno facevo esattamente le stesse cose. Visite al parentado, visite del parentado, panettone, cenone, pupazzo di neve, messa di mezzanotte. E nel mezzo di tutto questo c’ero io, che, pur avendo solo otto anni, già ero certa che un simile loop valesse bene il suicido. E la maestra. Che mi accusava di aver riciclato il componimento dell’anno precedente. Devo essere rimasta in qualche modo traumatizzata da questa giovinezza infame, perché ogni volta che si avvicina il Natale, sento il bisogno di scappare. Preferibilmente in qualche paese lontano in cui Gesù non l’hanno mai sentito nominare.

Così a Novembre alla televisione passavano questa pubblicità. Diceva “Sudafrica a partire da 1.590 euro”. Avrei preferito se avesse affermato qualcosa tipo “Sudafrica: la terra dove non esiste il Natale”. Ma mi sono comunque autoconvinta che da quelle parti il baraccone natalizio non fosse molto in voga. E non sono arrivata troppo lontana dalla verità. Visto che una guida ci ha spiegato chi erano Gesù e sua madre per mostrarci quest’ultima presuntamente visibile sulla parete di una grotta. Tornando all’origine dei miei progetti di fuga, non è che il prezzo rientrasse nelle mie tasche. Ma considerato l’approssimarsi della sudatissima tredicesima, ho pensato che si potesse fare. Così l’ho proposto a Kid_A. Il quale mi ha guardata come se venissi da Saturno. E mi ha risposto con parole che non lasciavano spazio alle speranze. Mi sarei potuta tranquillamente arrendere. Del resto non avevo mai messo il Sudafrica tra le mie destinazioni ad alto gradimento. Anzi non l’avevo nemmeno calcolato. Un po’ come tutti i paesi in cui mi sono trovata a viaggiare nell’ultimo anno. Insomma c’erano tutti i presupposti per passare oltre. E rassegnarsi al presepe, alle cene di fine anno e ai film natalizi. Ma non sarebbe stato da me. Così ho iniziato una campagna di martellamento round-the-clock. Non credevo che le cose sarebbero cambiate. Ma le coppie devono pur avere qualcosa di valido su cui litigare. Peccato che Kid non sia un tipo bellicoso. E dopo pochi giorni ha alzato bandiera bianca. Piuttosto deludente. In ogni caso alla resa ha posto un paio di condizioni. La prima era che pensassi a tutto io. Il che si poteva fare, nonostante la sottoscritta non abbia mai brillato per doti organizzative. La seconda era che pagassi l’esatta metà della quota. Cosa che non è mai successa né probabilmente mai accadrà, visto che gli devo ancora 500 euro da quando, un anno fa, siamo stati in India. Comunque ho accettato. E mi sono immediatamente inabissata nei preparativi per un fly&drive. Sono partita dal presupposto che in Sudafrica non saremmo mai più tornati e che quindi valesse la pena di vedere il maggior numero di cose possibili. Perciò ho stabilito che avremmo dedicato un giorno all’Escarpment Route. Perdendomi in una serie infinita di calcoli astrali su come percorrere 400 km in un giorno facendoli sembrare 200. Fortunatamente Kid_A non ha avuto nulla in contrario. Non una singola parola circa il fatto che in due giorni avessimo già macinato quasi mille chilometri. Salvo poi sentenziare senza appello che tutti quegli alberi e cascate ce li saremmo potuti tranquillamente risparmiare. Al che ho deciso che avrei lasciato a lui le redini del viaggio. Terribile errore. Da grande appassionato di documentari sugli animali, ha deciso che avremmo trascorso il resto delle nostre ferie al Kruger. Senza uscirne mai. E così è stato. Lì per lì non mi è sembrata un’idea da un milione di dollari. Ma poiché lui era il mio principale finanziatore, non ho potuto controbattere nulla. Sospettavo che il Kruger fosse come il Parco Faunistico delle Cornelle. E che Kid si sarebbe comportato come la mia maestra delle elementari. In altri termini: pensavo sarebbe stato noioso. Invece no. Per dieci giorni abbiamo inseguito leoni e leopardi, con appostamenti da un’ora l’uno. In pratica un massacro. Ne sono uscita con la pelle bruciata che mi si staccava dal viso. Alla faccia della stagione delle piogge. E con la schiena che aveva preso l’incurvatura esatta dello schienale del sedile, le gambe atrofizzate e un migliaio di fotografie di tutti gli animali che vivono nel parco, ad eccezione dei licaoni. Kid è stato hitleriano: sveglia alle 04,30 e rientro al rest camp alle 17,30. Il tutto per la durata di ben dieci giorni. Volevo prendere la malaria. Volevo morire. Però il Sudafrica è stato emozionante. Molto diverso da quanto prevedessi. Non che avessi delle reali aspettative, né idee o altre raffinatezze da viaggiatrice impegnata ed informata. E’ che trovarmi in un luogo dove gli animali sono i padroni di casa e l’uomo deve comportarsi di conseguenza ha reso tutto molto amplificato. La fatica, la soddisfazione, la bellezza, la calma. E alla fine a tutti quegli animali mi sono persino un po’ affezionata. Il che è strano per una come me. Che non sapeva quale aspetto avesse un impala. Che non immaginava esistessero i facoceri. Che era entusiasta all’idea di vedere una famiglia di elefanti quanto lo è di timbrare il biglietto dell’autobus. Una che aveva solo voglia di fuggire dalle questioni natalizie e che si è trovata in un luogo concettualmente diverso da qualsiasi cosa avesse mai immaginato. Ed ha apprezzato il potere rigenerante che la natura le ha saputo offrire. Non sono tornata in Italia da estremista animalista. Gli estremismi mi fanno paura, schifo o pietà. A seconda dei giorni. Quindi non diventerò vegana, né butterò le scarpe di pelle o adotterò cani abbandonati. Però vedere i camosci sulla strada verso l’Obitorio e sapere che presto qualcuno potrebbe ucciderli adesso mi fa un po’ più tristezza.

DSC01025

DSC00754

DSC00306

La Datazione dei Fossili

Una decina di giorni fa si è consumato il mio primo anniversario di fidanzamento con Kid_A. Che brutta parola “consumare”. Mi fa pensare a una gomma. O a qualsiasi cosa sia rovinato e non più utilizzabile. Non nei limiti della decenza, per lo meno. Ma anche i rapporti si logorano. O si logoreranno. Tanto vale mettersi nell’ottica. In ogni caso, la verità è che io e Kid non abbiamo mai nemmeno remotamente pensato di ufficializzare il nostro rapporto. Alla nostra età siamo molto oltre l’ansia di voler aggiornare il nostro status su facebook. Che comunque non abbiamo. Ma lui aveva adocchiato un costosissimo ristorante di crostacei e gli serviva una buona ragione per andarci. Così una sera è rientrato trionfalmente dal lavoro annunciandomi che, sebbene in ritardo, era il momento di festeggiare. Avrei volentieri intavolato una disquisizione sull’insopportabile gusto dolciastro del granchio della Kamchatka. O sul fatto che certi luoghi, oltre ad essere di dubbia ubicazione geografica, abbiano anche nomi di cui non conosco né l’ortografia né la pronuncia. Ma abbiamo finito con l’inabissarci nei meandri storici della datazione del nostro rapporto. Sarebbe stato più facile piazzare un fossile nell’anno X del Paleolitico Superiore. Dopo dieci minuti di elucubrazioni sul nulla, mi sono resa conto che urgeva una soluzione. Qualsiasi cosa purché non fossimo costretti a passare tutta la serata sull’argomento. L’accordo si è trovato sull’undici Settembre. E si è trovato velocemente. Segno che nemmeno a lui, in fin dei conti, importava granché. Quel giorno stavamo in aeroporto. Il Ben Gurion. E già qui la questione parte comprensibilmente male. Stavamo sbrigando la classiche procedure di imbarco. Quelle che in Europa richiedono un’ora e in Israele tre. Prima di allora credo di aver sempre pensato che, bene o male, a casa mi ci avrebbero fatta tornare di diritto. In uno dei miei rientri da Londra, ad esempio, nessuno storse troppo il naso sul fatto che la mia carta d’identità fosse scaduta e che il passaporto fosse in fase di eterno rilascio presso gli uffici consolari. Ma a Tel Aviv ho capito che nulla è scontato . Perché ci sono paesi nel mondo dove ti lasciano entrare sulla fiducia, ma, al momento di rispedirti da dove sei venuto, ogni dubbio su tuoi eventuali intenti criminali deve essere dissipato. Tornando al punto, mentre attendevamo di avere i famigerati codici a barre, iniziò a girare voce che le coppie dovessero passare insieme i controlli. Non che la cosa mi riguardasse. Ma una vecchia ficcanaso che viaggiava con noi ebbe la brillante idea di rivolgersi al personale denunciando me e Kid_A come coppia renitente. Il suo inglese era piuttosto strampalato. Ma il concetto venne comunque colto al volo. All’epoca noi due ci conoscevamo sì e no da una settimana. Ci stavamo calcolando da un paio di giorni. E sebbene, in fatto di matematica avessimo già approfondito, dover rispondere a domande sulla nostra relazione mi risultò indigesto. Nell’arco di mezz’ora mi trovai a spiegare a quattro diverse persone che non eravamo sposati, né fidanzati, non vivevamo nello stesso appartamento e non avevamo intrapreso quel viaggio insieme. Nel frattempo avrei avuto anche io un paio di quesiti da porre. Il primo rientra nella categoria dei grandi interrogativi esistenziali. Quelli destinati in ogni caso a rimanere privi di risposta. Ovvero perché la gente sia geneticamente incapace di farsi gli affari propri. Il secondo era un po’ più terreno. Mi chiedevo chi dei due fosse stato individuato come terrorista. Avendo il passaporto immacolato mi sentivo abbastanza tranquilla. Credevo ingenuamente che i miei trascorsi siriani potessero considerarsi dimenticati. Per cui ho minimizzato sulla mia relazione con Kid, sperando di passarla liscia. Ma con un bel cinque a fine codice sono stata smontata e rimontata. Con tanto di addetti che si scusavano ogni trenta secondi per i disagi che mi stavano arrecando. Roba da sfoderare un fucile a ripetizione e dar loro un buon motivo di nutrire tanti sospetti sul mio conto. Nel mezzo di tutto questo mi sono trovata divisa da Kid. Dev’essere che il severo dio dell’Antico Testamento disapprovava la nostra liaison. E non saprei come dargli torto. Così mentre lui passava il metal detector con due bottiglie di vino nel bagaglio a mano, io ero impegnata in patetici teatrini con addetti aeroportuali vari, i quali, senza mai smettere di sorridere e di fare la faccina costernata, esaminavano le mie proprietà fino all’ultimo paio di mutande sporche. Credo di aver capito il senso dell’arrivare in aeroporto con largo anticipo sull’orario d’imbarco. O forse no. Visto che in seguito non ho mancato di incrementare la mia collezione di voli persi o presi per la coda. Con Kid_A ci siamo ritrovati per puro caso un’ora dopo. Di fronte ad una grande fontana. E ci siamo giurati amore eterno. Ovviamente non è vero. Lui si è limitato a dirmi “Sfigata, ma che giri hai fatto nella tua vita?”. Ma un po’ di sano romanticismo darebbe senso alla datazione del nostro rapporto. Perciò gli ho proposto di fingere che le cose fossero andate così e prenotare il ristorante per il giubileo dell’anno uno. Anche se i crostacei non mi entusiasmano affatto.