Dolci e fame: la gestione alimentare di un cervello bulimico ad output multiplo

E me sto seduta qui, sopra alla lavatrice. Ho scritto in ogni luogo di questa casa. Ma la lavatrice mi mancava. Del resto come elettrodomestico è meglio candidato a fantasie erotiche che “letterarie”. Ma reinventiamolo. Guardo giù. Gli ultimi pezzi di dolce cercano di avere la meglio contro la furia dello sciacquone. Li immagino come casette malesi travolte dallo tsunami. E io sono dio che guarda dall’alto e se ne frega. Come è sua naturale prerogativa. Non sono mai stata in grado di cucinare. Ma sono testarda. Però tutto ha un limite. L’ennesimo plumcake mal riuscito. Crudo. Non del tutto. Ma abbastanza da non essere commestibile. Per esperienza direi che se l’avessi mangiato mi sarebbe caduto sullo stomaco come la cassoeula a mezzanotte. Ma anche a mezzogiorno volendo. E io non credo di avere un digerente kamikaze. Il dolce l’ho fatto a pezzi e gettato via. Nel cesso. Come qualcosa di vergognoso di cui ci si voglia sbarazzare. Il cadavere della mia inettitudine in cucina. Come qualcosa che non merita le glorie della raccolta dell’organico. L’acqua ha la meglio sugli ultimi resti del mio fallimento culinario. E torna limpida, pulita. Tutto divorato dal buco nero del nulla fognario. Insieme al mio tempo ed alla mia traballante pazienza. Nessuna delle nostre donne è mai stata in grado di cucinare. Fa eccezione NonnaPapera. Ma si sospetta uno scambio in culla. E comunque nelle lasagne mette troppo pomodoro. Ma chi si azzarda a lamentarsi? E poi a me le lasagne nemmeno piacciono. Vivrei di dolci io. Sono la sintesi della perfezione alimentare: li compri, li scarti, li mangi. E sono impeccabili a livello gestionale: se non ti vanno subito sono a lunga conservazione. La scadenza è uno dei motivi per cui vivere da soli fa schifo. Oddio, essere single ha i suoi vantaggi, ma col cibo devi sempre stare a dividere, rateizzare, pianificare. A meno che tu non voglia familiarizzare con gli scarafaggi che prendono residenza nel frigorifero e si nutrono del tuo cibo putrescente e ormai non meglio identificabile. E poi chi li sente tua madre e i bambini del Biafra. Il Biafra è in Nigeria, ma non molti lo sanno. In realtà non frega a nessuno dove sta. Ma siamo tutti sveltissimi a stimolare il senso di colpa dei bambini inappetenti chiamando in causa altri bambini che di cibo non ne hanno. Solo che i bambini non hanno sensi di colpa. Hanno senso logico però: se io non ho fame e il bimbo del Biafra sì, allora portala a lui la mia minestra. Che poi il Biafra da piccola pensavo che l’avesse inventato mia madre per fregarmi, che fosse uno stratagemma di rinforzo alla teoria del “un boccone per la nonna”. Però mi è sempre sembrato che la parola “Biafra” avesse su suono ampio e pieno di respiro. Non quello sordo e cupo di una secessione mal riuscita. E della fame. Poi ho capito che dipendeva dal fatto che l’associassi alla parola “diaframma”. Idea assurda. Ma con le lingue straniere funziona. Dovendo ricordare un vocabolo straniero è sufficiente focalizzare su una parola italiana che ha un suono simile anche se il significato è del tutto diverso. Risultato garantito. Però ne vengono fuori dei processi cerebrali davvero ignobili. Se me ne venisse in mente al volo un esempio lo scriverei. Tanto io non ho paura di finire in psichiatria. E’ una questione di pregiudizi. Uno pensa sempre che sia un posto di pazzi assassini. Invece no, non necessariamente. Ho conosciuto diversi degenti del loco quando avevo mia madre ricoverata in ortopedia. E non erano persone cattive. Sarebbe stato più facile che facessero male a sé stessi che agli altri. Mi ricordo una ragazza che voleva che le cambiassi una moneta da 200 lire in una moneta da 200 lire. Come te lo dico che non c’è nulla da cambiare? Io scappavo però. Perché ero piccola a avevo paura che si arrabbiasse e mi fracassasse il cranio. Ma, tutto sommato, il Pronto Soccorso sarebbe stato a 50 metri da lì. Era tutto così vicino nel vecchio ospedale, così piccolo, come se avessero volutamente accatastato i reparti uno sopra all’altro per far sentire i malati un po’ meno soli. Non sembrava un luogo di cura medica. Piuttosto una scuola fatiscente. Quando finiva l’ora delle visite ti aspettavi che sarebbe venuto il bidello a suonare la campanella. Lo chiusero tanti anni fa e poi divenne un rifugio per i tossici. Andavano a bucarsi dove prima c’era il SERT. L’ironia del destino degli immobili abbandonati. Sono come gli orfani. Non li si può lasciare totalmente a sé stessi. Però nessuno se ne vuole occupare. E lo si fa solo per dovere. Svogliatamente. Per limitare i danni. E il vecchio ospedale è rimasto orfano di una città che ne ha chiuso i battenti per trasferirsi altrove. In luoghi più techno-chic. Nemmeno ai drogati hanno concesso di fargli compagnia. E di scaldarsi le ossa tra le sue mura. Poteva essere una liaison perfetta, tra orfani dev’essere che ci si intende. E forse solo adesso riesco a capire perché ogni volta, guardando quelle finestre bloccate dalle assi di legno, mi sento un po’ triste e molto sola.

E tu non sai quali sono le porte che io vorrei aprirti adesso (E giuro che tutta Ultrainculopoli ci passerebbe attraverso comoda)

La mia dispensa era da giorni pietosamente vuota, per la precisione, erano vuoti tutti gli armadietti e ripiani vari destinati normalmente alla detenzione di prodotti di consumo di ogni ordine e genere, al punto che chi li avesse esaminati avrebbe pensato che una sorta buco nero stesse risucchiando tutte le mie provviste.

Così, dopo aver mangiato per giorni i ripescaggi di fine stagione (risparmio i dettagli al malcapitato lettore), decido di reclutare NonnaPapera per una visita al supermercato. Da brava massaia, quale non sono mai stata, decido di stilare una lista, approfittando di qualche illuminazione durante la giornata lavorativa e realizzo di essere ai livelli penosi in cui una dovrebbe comprarsi tutto il reparto alimentari per soddisfare le proprie esigenze minime.

Appunti alla mano esco dall’Obitorio mi trovo con NonnaPapera, la quale mi spiega che in serata si è prenotata per la pesca degli agoni (o di qualsiasi altro pesce di lago che inizi con la lettera A) con QuasiMaritoMai. Al di là del tremendo spreco di romanticismo che regna sovrano tra questi due disperati e sul quale evito commenti con la diretta interessata, ne risulta che abbiamo tempo venti minuti per andata, spesa e ritorno.
A quanto pare deve farsi bella per gli agoni, quindi ci fiondiamo toccando i 100 con lei che mi insulta preventivamente per le mie critiche sulla sua guida e io che non apro bocca, ma dentro di me ripenso ai bei tempi della prima comunione per vedere se riesco a ricordarmi qualche preghiera per intero (credo che quelle dette a metà non valgano).

Però sopravviviamo e per festeggiare decido di farmi offrire caffè e sigarette, anche a titolo di indennizzo per la perdita di vent’anni di vita. Ovviamente NonnaPapera è disposta a tutto purché ci sbrighiamo e infatti mi dà tempo trenta secondi prima di passare alla fase “assalto al supermercato”.

Veloce nemmeno fosse una recluta sotto addestramento, finisce la sua spesa in cinque minuti e poi mi si piazza dietro al culo come una vecchietta, insistendo perché mi sbrighi. Ora: io al supermercato ci vado una volta al mese, il resto lo commissiono a mia madre quando già ci deve andare a lei, però quando faccio la spesa non devo avere nessuno che mi disturba, onde poter raggiungere il livello tantrico necessario a capire cosa devo comprare, dato che le mie liste sono puntualmente piene di idiozie.

In assenza di uno stato karmico favorevole, passano minimo due ore con io che giro a vuoto tra le scaffalature e NonnaPapera che mi insegue lanciandomi maledizioni.
Riesco solo a pensare che questa donna che mi sta alla calcagna ha una “finezza” che farebbe rabbrividire uno scaricatore di porto, ma sulla spesa proprio non posso a elucubrare nulla.

Alla fine vado un po’ a caso, elargisco mezzo stipendio alla causa supermercato e rientro con NonnaPapera che maledice, oltre a me che le opprimo la guida con il carico delle mie provviste, anche la macchina che, non avendo ripresa non le consente di sfrecciare a mille su una modica pendenza del 30% dove nessuno viaggia oltre i 60.

Il rientro dovrebbe essere la fine del supplizio, deliziato peraltro da un umidità al 600% che potenzia i 30 gradi scarsi, facendoli sembrare 45. Invece NonnaPapera nota che una porta, che avrebbe dovuto essere chiusa, è aperta (io non ci avrei mai fatto caso nemmeno in un milione di anni) e sclera immediatamente.
La circostanza inizia ad inquietare anche me, visto che in entrambi i precedenti casi di porte sospettamente aperte era poi risultato che avessimo subito tentativi di furto, sventati dal nostro rientro e dalla fuga dei ladri.

Entrando nell’androne notiamo un rumore che proviene dai piani alti e, dopo aver perso ulteriori vent’anni di vita, con Nonna Papera che mi si attacca ad un braccio per impedirmi di salire le scale, scopro che si tratta di un ragazzo che sta facendo delle manutenzioni elettriche in un appartamento.
Dopo che noi abbiamo smesso di tremare e che lui ha capito la situazione, ci sorride ironico e dice “Ma io vivo a UltraInculopoli e noi lì le porte le lasciamo sempre tutte aperte”, al che io inferocita penso

(vedi titolo)